Lo stigma relativo al peso è l'espressione di atteggiamenti pregiudizievoli rivolti alle persone che convivono con obesità e sovrappeso (spesso etichettate negativamente come persone pigre, sciatte e poco intelligenti) e di azioni discriminatorie (come prendere in giro, fornire istruzione, salute o altri servizi di qualità inferiore rispetto ad altri individui con pesi corporei differenti)[1].

Una popolazione vulnerabile e suscettibile che ha ricevuto ancora troppa poca attenzione dalla letteratura riguardante lo stigma sul peso corporeo sono le donne in gravidanza e nel periodo successivo al parto.

Si tratta di una lacuna importante, data la crescente attenzione negli ultimi anni sia ai rischi sia alla gestione del sovrappeso e dell’obesità durante la gestazione. Stime recenti riportate da un interessante studio[2] pubblicato nel 2020 negli Stati Uniti suggeriscono che oltre il 70% delle neomamme e delle future mamme con obesità e sovrappeso sperimentino o abbiano sperimentato lo stigma relativo al proprio peso prima, durante e dopo la gravidanza.

Questo studio di Incollingo e collaboratori è stato condotto su 501 donne (la maggior parte in sovrappeso o con obesità) in stato di gravidanza e nel periodo post partum e ben 123 di queste hanno dichiarato di aver sperimentato lo stigma sul peso correlato alla gravidanza da almeno una fonte a loro vicina come la famiglia, gli amici, il coniuge, gli operatori sanitari e anche da fonti più esterne ma diffuse come i mezzi di comunicazione di massa, in particolare attraverso la rete internet e i social network.

Le esperienze di stigmatizzazione del peso tramite i mass media sono emerse soprattutto attraverso[3]:

• La rappresentazione di corpi in gravidanza molto “idealizzati”, (le partecipanti hanno riferito di aver visualizzato per lo più immagini raffiguranti gestanti con corpi snelli e piccole pance rotonde perfettamente proporzionate).

• La pressione di perdere il “peso acquisito” durante la gestazione il più rapidamente possibile.

• Gli elogi rivolti alle celebrità che hanno soddisfatto uno o entrambi gli aspetti.

Per contestualizzare i dati ottenuti è stato condotto un secondo studio[4] di Nippert et al. che ha ricercato gli articoli online relativi a peso e gravidanza con il maggior numero di visualizzazioni che potrebbero aver consultato le partecipanti.

Le fonti dei giornali ricercati sono state il New York Times, il Los Angeles Times, il Washington Post, il Wall Street Journal e USA Today, mentre i principali siti web di notizie cercati sono stati ABCnews.com, CBSnews.com, CNN.com, FOXnews.com e MSNBC.com.


Gli articoli riportavano immagini di gestanti con corpi molto poco realistici e raramente raffiguravano donne con obesità. Laddove veniva considerata la maternità in una condizione di obesità, la gestazione veniva riportata soltanto con un'accezione generalmente negativa e pericolosa, particolarmente focalizzata solo sui rischi per la salute materno-infantile.

Nessun articolo veniva però mai affiancato o sostenuto da linee guida medico-scientifiche o revisionato da esperti. Numerosi i messaggi che spingevano le donne a “recuperare velocemente” il peso pregravidico subito dopo il parto, indicando implicitamente come la perdita di peso post partum fosse facile, controllabile oltre che necessariamente desiderabile, suscitando frustrazione e senso di inadeguatezza in tutte quelle donne che non riuscivano o facevano fatica a farlo.


Molti articoli enfatizzavano l'aspetto "meraviglioso" “luminoso” “etereo” delle celebrità neomamme che riuscivano a riavere una forma fisica "eccellente" a pochissime settimane dal parto.

Esiste un termine gergale americano che racchiude questa tendenza sotto il fenomeno della "Yummy Mummy"[5], etichetta che originariamente veniva utilizzata per descrivere la gestante che incarnava femminilità, autonomia e perfezione estetica; oggi il termine è sempre più utilizzato dai media per celebrare una star che non solo recupera rapidamente la forma fisica ma addirittura "migliore" a quella precedente il parto.

A sottolineare di come la gravidanza possa essere superata con estrema facilità dal punto di vista psicofisico.

Questa ricerca sottolinea fortemente come i media contribuiscano a diffondere e a normalizzare lo stigma sul peso legato alla gravidanza e di come necessitino di un ripensamento per trattare adeguatamente articoli sulla maternità.

La salute psicofisica delle donne è una priorità imprescindibile e va sempre tutelata e messa in primo piano qualsiasi sia il contesto e il mezzo di comunicazione utilizzato, a partire da quelli maggiormente accessibili a gran parte della popolazione generale.

Dato il ruolo protettivo del supporto familiare e dell'importanza che le amicizie possono avere sulla salute psicofisica durante la gravidanza,[6] nello stesso studio è stato valutato anche lo stigma in ambito delle relazioni private e tra le 501 donne partecipanti ben 157 ovvero il 31,4% ha dichiarato che le relazioni più intime come la famiglia, i partner e gli amici fossero una prepotente e dominante fonte di stigma nei confronti del loro peso.

Dal campione selezionato le maggiori fonti di stigma sono state per 104 donne (il 66,2%) i parenti stretti, per 61 donne (il 38,8%) la famiglia allargata, per 47 donne (il 29,9%) il partner e per 69 donne (il 43,9%) gli amici.
I temi più discussi e riportati sono stati i giudizi negativi riguardanti la salute prenatale, lo sviluppo fetale e lo stile di vita.

Le donne hanno riferito di aver ricevuto commenti sulla loro salute (14,7%) e sulla salute del bambino (4,9%) e valutazioni negative nei confronti di comportamenti legati allo stile di vita (tipicamente su dieta e/o scarso esercizio fisico) in base al loro peso e all’aumento di peso durante la gravidanza.

L'analisi delle esperienze ha rivelato che quasi 1 risposta su 5 (il 18,8%) riguardava comportamenti alimentari negativi o presumeva che la madre seguisse una dieta malsana.
Quasi un quarto degli esempi (il 26,4%) ha menzionato chel'aumento di peso durante la gravidanza fosse stato ritenuto "molto","troppo", “eccessivo”.

Alcune donne hanno anche riferito che amici e familiari avessero paragonato il loro corpo ad altre donne "migliori" nel mantenere un "minor aumento di peso" durante il periodo gravidico.


Tutte queste valutazioni hanno avuto come conseguenza diretta l'internalizzazione di pregiudizi portandole a percepirsi cattive madri,incapaci e poco responsabili nel prendersi cura di loro stesse e del nascituro.

Un'altra questione emergente dello studio è stata quella di rilevare quanto la frequenza dello stigma sul peso venisse estesa non solo adonne con indice di massa corporea classificato sopra soglia di obesità ma a tutte le donne di diverse corporature e peso corporeo.


Lo stesso studio ha inoltre valutato anche la relazione tra stigma eassistenza sanitaria ricevuta. Quasi 1 donna su 5 (92 donne) hariferito di aver subito lo stigma relativo al peso anche in ambiente sanitario. Le percentuali differivano in base all'indice di massa corporea, con il 28,4% delle partecipanti con obesità pregravidica.

Le ostetriche sono state la fonte più comunemente segnalata (il 33,8%),seguite dagli infermieri (l'11,3%). Le partecipanti hanno riferito di essersi sentite umiliate, inadeguate e colpevoli a causa del loro peso durante le visite sanitarie.

Inoltre, 37 partecipanti (il 7,7%) hanno riferito di aver addirittura deciso di cambiare assistenza a causa del maltrattamento subito.

Gli operatori sanitari hanno per lo più stigmatizzato le pazienti con trattamenti e commenti irrispettosi; i discorsi più frequenti vertevano soprattutto sui fattori di rischio legati al sovrappeso e sulle potenziali conseguenze negative per il nascituro spesso anche quando gli esiti della nascita erano in definitiva positivi.

L'assistenza sanitaria comefonte di stigma nei confronti delle madri in sovrappeso e obesità è stata analizzata anche in uno studio[7] condotto in Australia da Mulherin et al. Una prima fase dello studio ha indagato le associazionitra l'indice di massa corporea pregravidico e le esperienze di assistenza alla maternità tramite un sondaggio auto-compilato somministrato a 627 donne che hanno partorito nel 2009, l'altra fase dello studio ha fornito un questionario online a 248 operatori sanitari e di assistenza alla maternità per indagare le loro percezioni e i loro atteggiamenti nei confronti della assistenza medica prestata allepazienti con diverse dimensioni corporee.


Le donne con un indice di massa corporea più elevato avevano riportato maggiori esperienze negative di cura durante la gravidanzae dopo il parto rispetto alle donne con un peso inferiore.

In linea con le opinioni delle pazienti, gli operatori sanitari avevano considerato le donne in sovrappeso e con obesità come madri meno indipendenti e incapaci, riferendo atteggiamenti meno propositivi nei loro confronti rispetto alle donne normopeso.

Anche un piccolo studio[8] di Nyman et al. condotto in Svezia ha esaminato le esperienze di 10 donne con obesità tra le 4 e le 6 settimane dopo la nascita dei loro figli. Le risposte ai sondaggi hanno confermato come frequentemente queste donne avevano di fatto vissuto esperienze negative, di disagio,sentendosi giudicate e derise per le loro forme corporee durante l'arco della gravidanza.

Altri studi [9,10] di Furber e Yelland e collaboratori hanno dimostrato di come le esperienze negative subite e interiorizzate portino le madri ad evitare o a ritardare in futuro la ricerca di ulteriore assistenza sanitaria e in particolare ad affrontare con minore aderenza le raccomandazioni terapeutiche.

L’assistenza prenatale è una componente essenziale eimprescindibile per garantire una gravidanza e un partoregolari sia per la madre sia per il neonato; in futuro èauspicabile che venga inclusa anche la valutazione dello stigma interiorizzato dalla donna prima, durante e dopo la gravidanza con il fine di esaminare ancora più approfonditamente le implicazioni sugli esiti di salute materna e neonatale.

In riferimento a dati demografici e al BMI pregravidico è stato riscontrato che, maggiore era il numero di fonti da cui le donne traevano commenti sul peso, maggiore era l'espressione di sintomi depressivi, stress psicologico, comportamento alimentare disordinato e ritenzione di peso maggiore dopo il parto[6].


Sono stati ipotizzati diversi meccanismi che correlano lo stigma sul peso della madre e le conseguenze avverse per il feto.
Principalmente è stato indagato il ruolo dell’ormone dello stress ossia il cortisolo. Tra le sue numerose funzioni, il cortisolo promuove l'accumulo di grasso negli adipociti e incide sull'aumento dell'introito alimentare[11].
Sperimentare lo stigma del peso potrebbe potenzialmente attivare la risposta allo stress materno e quindi contribuire all’aumento della fame nervosa e all’accumulo di adipe.


L’aumento del cortisolo materno probabilmente influenzerebbe anche i livelli di cortisolo del feto, promuovendo gli stessi effetti sul suo peso e sulla sua alimentazione. Uno studio[12] longitudinale condotto daGonzales et al. sul cortisolo materno durante la gravidanza ha effettivamente dimostrato relazioni significative tra cortisolo materno, stress psicologico e livelli di cortisolo infantile.

Pertanto, è verosimile che l'aumento del cortisolo materno in risposta allo stigma ponderale correlato alla gravidanza possa servire sia come meccanismo immediato di aumento di peso della madre stessa sia come innesco per l'aumento ormonale all'interno dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene del bambino che promuoverebbe l'aumento di peso nel tempo. La risposta del cortisolo alle esperienze prenatali di stigmatizzazione del peso e l’impatto a valle sul peso materno e infantile meritano dunque indagini più approfondite per conferire maggior valore a questa interessante ipotesi.

Anche una dieta sregolata e disfunzionale in gravidanza in risposta allo stress dello stigma subito produrrebbe effetti sulle scelte alimentari future del nascituro. Uno studio di coorte[13] condotto da Bjerregaard et al. eseguito su oltre 19.000 coppie madre-figlio ha scoperto che l’alimentazione prenatale materna era in grado di prevedere i comportamenti alimentari dei bambini fino ai 14 anni di età.

Un'alimentazione disordinata oppure emotiva diventerebbe così un possibile fattore di rischio di obesità anche per la prole a partire già dalla vita intrauterina.
Nel periodo post partum diversi hanno dimostrato rilevante il ruolo dell'allattamento al seno come fattore protettivo nei confronti dell'obesità per il bambino[14].
Anche in questo caso lo stigma relativo al peso durante la gravidanza sembrerebbe probabilmente direttamente coinvolto.

Durante l'allattamento le madri con obesità o sovrappeso durante il ricovero ospedaliero hanno riferito di sentirsi scoraggiate nel ricercare aiuto agli assistenti sanitari a causa del loro peso e del trattamento a loro riservato.

Queste madri, avendo interiorizzato lo stigma, dichiaravano di non riuscire a comunicare in maniera efficace e provavano tensione e disagio per il loro corpo durante l'allattamento in pubblico.

Le minori possibilità di ricevere corrette informazioni sull’allattamento e la vergogna provata aumentavano le probabilità di desistere e affidarsi precocemente all’uso del biberon[15].


Il pregiudizio peggiorerebbe anche i sintomi di depressione post partum, un ulteriore noto fattore di rischio per le difficoltà di allattamento al seno e per l’interruzione precoce dello stesso[16].


Lo stigma subito minerebbe anche i comportamenti di regolazione del peso corporeo diminuendo la motivazione all'esercizio fisico da parte delle madri[17].


Esperimenti su roditori[18] suggeriscono anche che, indipendentemente dallo stato di obesità materna, il mancato esercizio fisico materno influenzi lo sviluppo di obesità nella prole.


Alcuni topi femmine gravide sono state costrette alla sedentarietà prolungata, altre invece all'esercizio fisico quotidiano. È stato rilevato che l’esercizio materno migliorava la metilazione del promotore Prdm16 e, quindi, lo sviluppo del tessuto adiposo bruno.


Ciò ha diminuito lo sviluppo dell’obesità nella prole, anche quando veniva assegnata alla madre una dieta ad alto contenuto energetico. Il tessuto adiposo bruno con attività metabolica svolge infatti una funzione importante per bruciare acidi grassi durante la termogenesi determinando un maggiore consumo energetico. Gli adipociti bruni sono stati identificati anche nel tessuto adiposo bianco umano e il loro aumento porterebbe ad un maggiore effetto termogenico con dissipazione dell'energia in eccesso, proteggendo dall’obesità.


Gli studi della metanalisi[19] condotta Ruchat et al. hanno dimostrato la relazione tra il rispetto delle raccomandazioni sull’esercizio prenatale e la prevenzione dell’eccessivo aumento di peso gestazionale e della macrosomia, importanti fattori collegati alla prevenzione del rischio di obesità infantile a valle. In questo senso, indipendentemente dall'indice di massa corporea, la sedentarietà mediata dallo stigma potrebbe essere un ulteriore meccanismo comportamentale chiave che guida il rischio di obesità intergenerazionale.


Dato che lo stigma sul peso legato alla gravidanza è ancora un campo di ricerca nuovo, questo quadro generale potrebbe in futuro ampliarsi per tenere conto anche di fattori sociali, economici, ambientali e fisici che si integrano e che influenzano il modo in cui le donne concettualizzano lo stigma relativo al peso durante la gravidanza, la loro salute prenatale, il rischio di complicanze e la salute infantile a valle.

Tutto questo contribuirebbe in modo significativo non solo a migliorare la salute materno-infantile, soprattutto nei casi di obesità materna, ma anche a mitigare uno stigma sociale ampiamente diffuso.

Bibliografia

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